Una decina di giorni fa abbiamo assistito al trionfale ingresso di Cuil sulla scena dei motori di ricerca. L’accoglienza entusiastica riservata al nuovo, presunto, competitor di Google ha riguardato sia la dimensione del buzz online (una tale attenzione è stata riservata solo a eventi eccezionali quali le imprese della Carfagna…), sia quella dell’innovatività rivoluzionaria di Cuil (pronunciato cool) rispetto ai suoi predecessori.

Bisogna certamente riconoscere il successo della campagna di PR allestita attorno al nuovo motore di ricerca, basata su valori simbolici più che tecnici. Nella fattispecie, uno sfacciato dualismo con Google è stato l’espediente (poco creativo, ma molto efficace) che ha originato grande curiosità e WOM attorno a Cuil.

Società fondata da ex dipendenti di Google, indice tre volte più grande di quello di Google, interfaccia grafica simile a quella di Google (ma nera invece che bianca), tutti questi sono elementi a conferma di questa tesi, sostenuta anche da Richard MacManus su ReadWriteWeb.

Chiunque parlava di Cuil ancor prima di averlo provato, decantandone le capacità semantiche, le dimensioni dell’indice, l’originale pagina dei risultati. Presi, come spesso accade, dalla febbre della novità, pochi hanno appurato l’effettiva corrispondenza tra presunto e reale.

Sono bastati alcuni giorni e delle semplici prove di ricerca per raffreddare gli animi. Cuil è per ora un motore di ricerca assolutamente ordinario, con alcune features interessanti (ad esempio l’introduzione di clusters nella SERP – non proprio una novità, se pensiamo che Clusty li ha dal 2000), ma ancora tutto da verificare sotto i profili della rilevanza dei risultati e delle dimensioni dell’indice. Non da ultimo, Cuil deve ancora inventarsi un business model, dal momento che per ora non presenta risultati sponsorizzati, né può permettersi di creare dal nulla sistemi di online advertising, senza prima avere un certo numero di utenti fidelizzati.

Non vogliamo con questo presentare Cuil come un fuoco di paglia, sicuramente i margini di miglioramento esistono sotto tutti i punti di vista. Ma, come afferma in questo articolo David Berkowitz, per ora the safe bet is still on Google. Siamo d’accordo.